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Per riflettere…. Calamandrei e Manfredonia.

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Il generale Albert Kesselring era il comandante delle forze di occupazione tedesche in Italia fra il 1943 e il 1945. Processato e condannato a morte dagli Alleati per crimini di guerra (sentenza poi commutata in ergastolo per intervento del governo britannico), nel 1952 fu tuttavia liberato per motivi di salute. Dichiarò che gli italiani dovevano essergli grati e avrebbero dovuto dedicargli un monumento. Gli rispose allora uno dei più amati padri costituenti della Repubblica, Piero Calamandrei, con questo componimento in versi liberi noto come “Lapide ad ignominia” che vogliamo ricordare nella Giornata della Liberazione.

Di seguito la riflessione del nostro Presidente Nazionale Emiliano Manfredoina

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.

Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio del torturati più duro d’ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto giurato fra uomini liberi

che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno popolo serrato intorno al monumento che si chiama

ora e sempre RESISTENZA

di Emiliano Manfredonia, presidente nazionale delle Acli

La Festa della Liberazione è divisiva solo per chi non accetta l’idea che l’evento che si celebra, cioè appunto la caduta definitiva del fascismo e la liberazione dell’Italia dall’ occupazione tedesca, abbia costituito un tornante storico decisivo – e positivo- nella tormentata storia del nostro Paese.Si può discutere all’infinito di singoli episodi, delle motivazioni recondite delle diverse forze che fecero parte del Comitato di Liberazione Nazionale, del peso minore o maggiore che ebbe la guerriglia partigiana rispetto all’avanzata delle armi alleate, ma su due punti occorre essere chiari: la condanna della dittatura fascista e dell’oppressione nazista, e la legittimità della lotta armata e non armata per riscattarsi da ambedue. E la Resistenza fu un movimento di popolo, perché alle forze combattenti si unirono anche coloro che diedero assistenza ai clandestini, che nascosero o fecero fuggire gli ebrei perseguitati, che stilarono certificati compiacenti, che falsificarono documenti ….  Se lo si paragona alla freddezza che sempre circondò il governo fantoccio della Repubblica sociale, e di cui i fascisti erano primi ad essere consapevoli, è chiaro dove si situava il consenso, sia pure silenzioso, da parte dei cittadini.

Come ha ricordato efficacemente il documento delle associazioni antifasciste e resistenziali, che anche le ACLI hanno sottoscritto, quello che si impone oggi è riuscire a inverare i valori della Resistenza nella realtà quotidiana e nelle crisi drammatiche che sono sotto i nostri occhi , a partire dalla “necessità e l’urgenza, a più di un anno dall’aggressione russa all’Ucraina, di spingere il governo italiano e l’Unione Europea a dare vita a una iniziativa diplomatica per aprire uno spiraglio di trattativa che crei le condizioni di una pace giusta e duratura”. In fondo, l’aspirazione fondamentale dei molti cattolici che si impegnarono nella Resistenza, fra cui numerosi padri fondatori della nostra Associazione, vi era il desiderio di chiudere finalmente il capitolo sanguinoso della guerra, anzi di espellere il concetto stesso di guerra dalla storia dell’umanità. Per questo è importante smentire l’idea che la Resistenza sia stata appannaggio di una sola componente politica, che serve a meraviglia a coloro che ancora oggi non hanno voluto accettare il dato storico della lotta antifascista come norma fondativa della nostra Costituzione, della nostra democrazia.

Mi sembra importante, sotto questo profilo, la scelta della RAI di mandare in onda il 25 aprile uno sceneggiato dedicato all’importante esperienza di vita di Tina Anselmi, giovanissima staffetta partigiana, dirigente sindacale (e anche iscritta alle ACLI), militante democristiana, parlamentare e, nel 1976, prima donna ad essere divenuta Ministro della Repubblica, prima al Lavoro e poi alla Sanità, dove ebbe l’onere e l’onore di essere la madre del Sistema Sanitario Nazionale, questo bene prezioso che va tutelato come una delle grandi conquiste del movimento dei lavoratori e della democrazia repubblicana. La sua esistenza, la sua testimonianza, compendia quella di tante e tanti altri cattolici che nella Resistenza portarono la loro aspirazione alla libertà e il loro rifiuto di ogni forma di oppressione in nome dell’amore di Cristo: una presenza a volte ignorata, altre volte non adeguatamente rivendicata ma nondimeno essenziale, come dimostrò la presenza decisiva dei cattolici nella fase di elaborazione della Costituzione. Ai valori della Costituzione Tina Anselmi fu fedele per tutta la sua esistenza, e la sua fede si sposò con un altissimo senso delle istituzioni, come dimostrò nel 1978 quando, da Ministro della Sanità, accettò di controfirmare la legge 194 cui in coscienza aveva votato contro da parlamentare. E questa fedeltà venne messa a dura prova quando accettò di presiedere la Commissione di inchiesta sulla P2, smascherando intrecci e connessioni fra politica e malavita che le costarono minacce, derisioni e attacchi di ogni genere, a cui essa oppose la fermezza delle sue convinzioni, guadagnandosi anche il rispetto di molti avversari politici. Non è un caso che lei sia l’unica persona nella storia della Repubblica a cui è stato dedicato un francobollo mentre era ancora in vita.

In questa dedizione – che avrà numerosi riconoscimenti fra cui, il 26 aprile, l’inaugurazione di una panchina a lei dedicata a Bologna anche su iniziativa delle ACLI- noi vediamo il segno di una militanza ispirata alla coerenza fra fede e vita, fra ideali e prassi, che deve connotare l’esistenza del credente anche e soprattutto se si impegna nell’attività politica e sociale. Proprio queste esistenze ci ricordano che, come diceva Giovanni Bianchi “la memoria non è archeologia. Fare memoria è ritornare sui propri passi per ritrovare le tracce di nuove vie verso un futuro possibile. La memoria conserva perciò inevitabilmente i semi della speranza e del progetto. Per questo non deve essere ignorata né sprecata”.

E per questo gli aclisti vanno in piazza: per tenere viva una memoria, per testimoniare una speranza, per affermare un progetto di democrazia e di società.


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